L’uso dei social network è diventato virale. Mettiamo al corrente i nostri “amici” delle nostre gioie, delle nostre ansie, delle nostre solitudini.
Insomma, senza facebook non riusciamo davvero a stare. Per alcuni è bellissimo sentirsi parte di una “comunità”, ma attenzione all’uso che di questo strumento ne facciamo, specialmente quando lo utilizziamo per offendere o prendere in giro qualcuno che ci sta poco simpatico, fosse anche solo per gioco o con lo scopo di far sorridere chi ci legge.
Cercherò di spiegarmi meglio partendo da due concetti: quello di calunnia e di diffamazione che molto spesso vengono erroneamente assimilati tra loro.
Sono reati assolutamente diversi: quello di calunnia è il delitto che commette chi denuncia una persona pur sapendo che questa è innocente; quello di diffamazione è il reato di chi offende l’onore di una persona, comunicando con altri.
Ebbene sì, la comunicazione, proprio quella che contraddistingue ogni attività su facebook.
Entriamo un po’ più nel tecnico.
Il principio è molto semplice: per la diffusione di messaggi offensivi attraverso la bacheca facebook scatta la diffamazione aggravata, paragonabile a quella a mezzo stampa. A chiarirlo è stata la Cassazione con la sentenza n. 8328/2016, confermando la linea dura nei confronti di chi usa i social network quale valvola di sfogo per scaricare rabbia, frustrazioni o sete di vendetta nei confronti di personaggi pubblici, semplici colleghi o capi.
Il caso che è rimasto nella storia della nostra giurisprudenza è assai significativo.
Ad essere offeso era stato l’ex commissario straordinario della Croce Rossa; ad offenderlo era stato un componente della sua stessa associazione, che, dissentendo dall’ex commissario per alcune scelte e iniziative prese, aveva diffuso diversi post offensivi contro di lui. Il contenuto era chiarissimo ed inequivocabile: lo aveva apostrofato “parassita”, “cialtrone”, “mercenario”, utilizzando la bacheca e allegando anche una foto che identificava la persona offesa.
La Cassazione non ha avuto dubbi sulla conferma della condanna per diffamazione, precisando che tale reato “può essere commesso a mezzo di internet, sussistendo, in tal caso, l’ipotesi aggravata di cui al terzo comma della norma incriminatrice, dovendosi presumere la ricorrenza del requisito della comunicazione con più persone, essendo per sua natura destinato ad essere normalmente visitato in tempi assai ravvicinati da un numero indeterminato di soggetti”.
In particolare, continua la sentenza, perché “anche la diffusione di un messaggio diffamatorio attraverso l’uso di una bacheca ‘facebook’ integra un’ipotesi di diffamazione aggravata ai sensi dell’art. 595, comma terzo, c.p., poiché ha potenzialmente la capacità di raggiungere un numero indeterminato di persone, sia perché, per comune esperienza, bacheche di tal natura racchiudono un numero apprezzabile di persone (senza le quali la bacheca Facebook non avrebbe senso), sia perché l’utilizzo di facebook integra una delle modalità attraverso le quali gruppi di soggetti socializzano le rispettive esperienze di vita, valorizzando in primo luogo il rapporto interpersonale, che, proprio per il mezzo utilizzato, assume il profilo del rapporto interpersonale allargato ad un gruppo indeterminato di aderenti al fine di una costante socializzazione”.
Per cui, la condotta di postare un commento su facebook, si legge in sentenza, realizza “la pubblicizzazione e la diffusione di esso, per la idoneità del mezzo utilizzato a determinare la circolazione del commento tra un gruppo di persone, comunque, apprezzabile per composizione numerica, di guisa che, se offensivo tale commento, la relativa condotta rientra nella tipizzazione codicistica descritta dall’art. 595 c.p.p.”.
Come di consueto, veniamo ora a dare uno sguardo alla giurisprudenza di casa nostra.
Anche il Tribunale di Taranto si è mosso nella direzione di punire severamente il reato di diffamazione a mezzo facebook, giungendo a condannare le autrici degli scritti diffamatori e imponendo loro il risarcimento del danno per la persona diffamata che aveva denunciato l’accaduto.
La vicenda ed il principio di legge sono stati puntualizzati nella sentenza n.2385/2016 emessa dalla 1° sezione penale del Tribunale di Taranto, pubblicata il 18 gennaio 2018.
Ad essere sanzionate sono state due imputate, M.V. e M.A., ex compagne di scuola della persona offesa, B.M., che aveva denunciato la scoperta di commenti offensivi sul proprio conto, presenti sulla bacheca facebook delle due imputate.
Postando una vecchia foto di gruppo, scattata ai tempi della scuola, le imputate avevano commentato l’immagine della loro ex compagna con commenti certamente diffamatori: “mostro di Lockness”, “cesso”, “mostro aberrante”.
Nel condannarle, il Tribunale di Taranto ha ricordato che “la reputazione è la considerazione in cui si è tenuti dagli altri, è il senso della dignità personale in conformità con l’opinione del gruppo sociale, secondo il particolare contesto storico”.
Il reato di diffamazione in questo caso è aggravata perché “i commenti in esame erano accessibili a una pluralità indeterminata”, ed infatti il Tribunale si è soffermato su cosa è un profilo aperto facebook. Assai salato il conto da pagare: condanna e risarcimento del danno in favore della persona diffamata.
avv. Massimiliano Madio
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PAROLA ALL’AVVOCATO – L’uso di facebook e il reato di diffamazione
MODULO DENUNCIA PER DIFFAMAZIONE
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