“LA NOSTRA SALUTE mentale è in vendita”: è l’allarme lanciato, senza mezzi termini, da un nuovo studio di Privacy International, organizzazione benefica del Regno Unito che difende il diritto alla privacy nel mondo. Una conclusione a cui l’associazione è arrivata dopo aver analizzato 136 siti sulla depressione popolari in Francia, Gran Bretagna, e Germania, scoprendo un’amara verità: la maggior parte di loro condivide i dati degli utenti con inserzionisti, colossi hi-tech e data broker, mentre alcuni test online per la depressione passano le risposte alle domande, nonché il risultato finale, a terze parti. Informazioni estremamente sensibili che vengono, quindi, usate per profilarci, cioè per bersagliarci di pubblicità ad hoc. Il 76.04% dei siti contiene elementi di terze parti a fini di marketing
“I nostri risultati dimostrano che molti siti per la salute mentale non prendono seriamente come dovrebbero la riservatezza dei loro utenti — scrivono i ricercatori sul sito di Privacy International —. Questa ricerca mostra anche che alcuni di questi siti trattano i dati personali dei visitatori come una merce, fallendo nel rispettare gli obblighi previsti dalle leggi europee sulla privacy e la protezione dei dati”. Tra le pagine analizzate, la percentuale di quelle che contiene elementi di terze parti è impressionante: 97.78%. È vero, come annotano gli stessi studiosi, che molti di questi elementi non hanno direttamente lo scopo di collezionare i dati degli utenti, ma servono, per esempio, a introdurre degli effetti visivi nelle pagine. Eppure, sembra proprio che i gestori dei siti sulla salute mentale li abbiano integrati guidati da un obiettivo preciso: battere cassa grazie alla pubblicità. Stando alla classificazione effettuata attraverso webxray, uno strumento open source che permette di analizzare i contenuti di terze parti presenti in una pagina web e identificare le compagnie che collezionano i dati, il 76.04% dei siti sulla depressione contiene elementi di terze parti a fini di marketing. La longa manus di Google, Facebook e Amazon
I loro proprietari sono, non a sorpresa, tre grandi colossi della tecnologia: in prima posizione si piazza Google, seguito da Facebook e Amazon. Una triade dalla longa manus che, come già dimostrato da molte ricerche, ci pedina nelle nostre scorribande digitali per sapere che siamo sempre noi quel determinato utente-consumatore interessato a un volo per la Cambogia, o a un nuovo cellulare, e così profilarci: in altri termini, proporci la réclame giusta nel posto giusto. Le grandi piattaforme e le aziende di marketing precisano che si tratta di dati anonimi, cioè che non identificano te in quanto persona, ma te in quanto utente/consumatore. E se in alcuni casi è vero, in altri le informazioni (come per esempio l’indirizzo IP, cioè quell’indirizzo numerico che identifica univocamente un dispositivo collegato alla Rete) potrebbero essere sfruttate per risalire all’identità reale. Il problema è endemico e non nuovo, ma nel caso delle pagine sulla depressione, così come dei siti porno finiti nella bufera per lo stesso motivo lo scorso luglio, le informazioni che vengono tracciate sono particolarmente sensibili.I rischi
I rischi li spiega Bruno Saetta, avvocato che da anni si occupa di digitale: “L’utilizzo di dati da parte dei pubblicitari può comportare dei fenomeni discriminatori, anche a prescindere dall’identificazione fisica dell’utente — dice —. Il solo fatto di inserire all’interno di un profilo specifico un determinato dato, come la visita di un sito che offre informazioni sulla depressione, fa sì che a quell’utente possano essere indirizzate pubblicità mirate nell’ambito di quelle ritenute attinenti alla depressione. Questo potrebbe incidere, ad esempio, sul costo di un servizio o di un prodotto: un farmaco potrebbe essere offerto a una persona che si ritiene ne abbia la necessità a un prezzo più elevato proprio perché non ne può fare a meno”. Del resto, l’Organizzazione mondiale della sanità ha stimato che ogni anno il 25% della popolazione europea soffre di depressione o ansia e lo studio di Privacy International non è il primo a suggerire la mancanza di scrupoli delle compagnie nello sfruttare i dati sulla salute mentale. Un’inchiesta condotta nel 2017 dal quotidiano The Australian aveva messo alla berlina Facebook dopo aver scoperto un documento interno in cui si leggeva che gli algoritmi del social network potrebbero determinare i “momenti in cui i giovani hanno bisogno di un’iniezione di autostima” e proporgli specifici messaggi pubblicitari esattamente quando sono più sensibili. “Facebook non offre strumenti per prendere di mira le persone sulla base del loro stato emotivo, la ricerca è di un analista australiano e serve far capire alle aziende come le persone si esprimono sul social”, si è giustificato all’epoca Menlo Park. Ma il dubbio, soprattutto alla luce del nuovo studio, rimane.Problemi già all’attenzione dei garanti europei
Per quel che riguarda i siti analizzati dall’organizzazione del Regno Unito, “occorrerebbe verificare nel concreto se il Gdpr è rispettato — prosegue Saetta —, cioè se l’informativa sui dati raccolti è corretta e completa. Inoltre, quando si visita un sito il Gdpr prevede un consenso specifico, da intendersi separato per ogni finalità, per cui si dovrebbe poter sceglier se rifiutare solo i cookie pubblicitari. Molti, invece, mettono un consenso unico generico che potrebbe non essere conforme alle norme. Infine c’è un problema di tutela dei consumatori: andrebbe stabilito se i sistemi di tracciamento discriminano gli utenti, arrecandogli un danno”. Tutti problemi che sono già all’attenzione dei garanti europei, spiega l’avvocato, e “su cui dovremmo avere qualche risposta nei prossimi mesi”.
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