Di recente tu e i tuoi colleghi di lavoro avete aperto un gruppo di WhatsApp intitolato “I dipendenti sfruttati”. Al di là del nome dichiaratamente ironico, lo scopo del gruppo non è solo quello di raggiungere una maggiore coordinazione sulle attività giornaliere ma di aprire temi di discussione sulle vicende aziendali più sensibili come il rispetto nei tempi di pagamento dello stipendio, la sicurezza sul luogo di lavoro, gli scioperi, le richieste di permessi, ecc. Di recente, i toni nei confronti del capo sono diventati più sferzanti e qualcuno si è avventurato in vere e proprie invettive dal tono sindacale. Ti sei aggiunto anche tu al coro con un messaggio in cui hai letteralmente vomitato tutto ciò che non ti è andato bene negli ultimi anni e di come l’azienda abbia approfittato di te nei turni e nell’assegnazione delle ferie. Non è passato neanche un giorno e qualcuno ti ha detto di prestare maggiore attenzione visto che, nella chat, c’è una talpa: uno dei dipendenti, di solito più taciturno, è molto largo di bocca e spesso ha fatto la spia. Paventando la possibilità che il datore di lavoro possa aver saputo ciò che avete scritto, temi il rimprovero, il licenziamento o una denuncia per diffamazione. È davvero così? Si può parlare male del datore di lavoro in un gruppo WhatsApp? Ecco cosa ha detto a riguardo, qualche ora fa, la Cassazione in una interessante sentenza [1].
Indice
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1 Quando le rispostacce al datore di lavoro non sono vietate
2 C’è diffamazione in un gruppo chiuso di WhatsApp?
3 Cosa rischia chi divulga i messaggi di una chat segreta?
Quando le rispostacce al datore di lavoro non sono vietate
Criticare è lecito, offendere no. Chi parla male dell’azienda può essere licenziato. Chi pronuncia in pubblico offese contro il datore di lavoro può, inoltre, essere querelato per diffamazione (e ovviamente licenziato). In questo contesto normativo, è molto importante comprendere i confini tra reato e libertà di pensiero (e di critica). Ci sono state, in passato, numerose sentenze – anche della Cassazione [2] – che hanno giustificato i dipendenti per aver usato parole forti nei confronti del datore di lavoro in un contesto aziendale conflittuale ed esacerbato. A chi non riceve lo stipendio vien facile dire parolacce e minacciare. Bisogna quindi considerare la condizione di provocazione in cui si trova un dipendente mobbizzato o lasciato senza busta paga. E su questi i giudici hanno spesso usato un metro permissivo. Ad esempio la Cassazione ha ritenuto perdonabili le reazioni polemiche e violente a un comportamento ingiusto del datore di lavoro. Il clima teso e le minacce di un licenziamento o di una riduzione dello stipendio o di una sanzione ingiusta possono dar luogo a una ritorsione istintiva del lavoratore che “può starci” in un contesto arrivato ormai ai ferri corti. Se il richiamo del datore è eccessivo è naturale attendersi una reazione: non è obbligo del dipendente essere sottomesso e accettare anche gli abusi. E se anche la reazione è superiore alla causa che l’ha giustificata – come nel caso del dipendente che utilizzi parole di minaccia – c’è comunque la causa di giustificazione della provocazione.
C’è diffamazione in un gruppo chiuso di WhatsApp?
Ma che succede se, effettivamente, si è superata la misura e la critica è sfociata in un pesante insulto? Quando la prova è contenuta in un gruppo chiuso di WhatsApp cui il datore di lavoro non ha accesso, è possibile usare la stampa come prova per querelare il dipendente per diffamazione?
Parlare male del capo su Facebook può costare il licenziamento. Questo perché il profilo, per quanto chiuso a una serie di contatti, è comunque frequentato da numerosi utenti ed è assimilabile a una piazza. Chi sparla con un post, quindi, diffama e risarcisce. Ma le cose non vanno allo stesso modo se ci spostiamo dal social network a una chat privata sullo smartphone come WhatsApp. Qui siamo dinanzi a una corrispondenza tra privati che, come tale, resta segreta.
Manca quindi l’illecito – e non solo la prova – che fa scattare il licenziamento per giusta causa se le ingiurie sono scritte in un gruppo chiuso di cui fanno parte gli iscritti e il datore viene a saperlo per la spiata di un lavoratore: la segretezza della corrispondenza vale anche per le forme di comunicazione elettronica come chat private, newsgroup o mailing list che hanno l’accesso condizionato al possesso di una password, come ha stabilito la Corte Costituzionale [3]. Dunque, se questo discorso vale per il gruppo chiuso su WhatsApp vale anche per la chat segreta su Facebook. Secondo la Cassazione non si può fare nulla contro il dipendente: è la stessa Costituzione che gli consente di comunicare riservatamente.
Per la diffamazione è necessario il luogo pubblico
La chat su Facebook o il gruppo di WhatsApp vanno considerati al pari di un luogo digitale di dibattito e scambio di opinioni chiuso all’esterno e utilizzabile solo dai membri ammessi.
Alla luce di ciò, le conversazioni intervenute in un ambito sindacale circoscritto ad un gruppo limitato di persone, quali quelle veicolate nella chat su Facebook o di WhatsApp, costituiscono esercizio del diritto costituzionale alla libertà e segretezza di corrispondenza. Quest’ultimo comprende ogni forma di comunicazione, incluso lo scambio di opinioni e discussioni tramite i mezzi informatici resi disponibili dallo sviluppo della tecnologia. L’esigenza di tutelare la segretezza delle comunicazioni scambiate tra i lavoratori inclusi nel gruppo fa sì che le eventuali offese nei confronti del datore di lavoro possono essere considerate un reato o causa di licenziamento.
Secondo la Corte dunque tutto ciò che viene scritto e dichiarato in un gruppo chiuso attivato su social network (nella specie, Facebook) da lavoratori sindacalmente esposti costituisce, prima ancora che legittima espressione del diritto di critica sindacale, forma di comunicazione privata in cui i lavoratori possono dare libero sfogo, anche attraverso l’utilizzo di espressioni “colorite”, alla propria insoddisfazione rispetto alla gestione aziendale.
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Cosa rischia chi divulga i messaggi di una chat segreta?
La norma del codice penale che punisce la diffamazione lo descrive come quel reato che viene posto in essere da chi offende l’onore di un’altra persona comunicando con almeno due persone. Ma – qui la novità affermata dalla Cassazione – se la conversazione avviene in unambito privato come nel caso di una chat tra dipendenti della stessa azienda, va tutelata la segretezza della comunicazione. Il messaggio postato all’interno della chat chiusa va assimilato alla corrispondenza privata, sigillata e inviolabile. Anzi, l’illecito lo commette chi rivela a terzi il contenuto della chat o del gruppo WhatsApp perché non sta facendo altro che violare il segreto della corrispondenza, comportamento che è punito penalmente [4].
note
[1] Cass. ord. n. 21965/18 del 10.09.2018.
[2] Cass. sent. n. 1315/17 del 19.01.2017.
[3] C. Cost. sent. n. 20/2017.
[4] Artt. 616 e 617 cod. pen.