La responsabilità del gestore di un sito web
La responsabilità del gestore di un sito web per commenti diffamatori postati dagli utenti è un tema che sta facendo molto discutere.
Il reato di diffamazione, secondo quanto enunciato dal codice penale (art. 595), consiste nell’offendere la reputazione di persone non presenti (situazione che sul web si verifica di continuo), da contemperare, tuttavia, con il diritto di critica (che, a sua volta, consiste nell’esprimere, con continenza e pertinenza, una critica decostruttiva dell’altrui tesi anche utilizzando toni abbastanza forti).
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Bisogna subito precisare che la sentenza enunciata non stravolge in nessuno modo le convinzioni giurisprudenziali già affermatesi: occorre distinguere varie ipotesi e verificare, caso per caso, quando il provider possa essere ritenuto responsabile di quanto pubblicato sul proprio sito.
Dunque non si configurerà mai una sorta di responsabilità oggettiva ed automatica del gestore del sito per eventuali commenti sgradevoli postati da chiunque all’interno del sito, ma, soltanto al verificarsi di talune condizioni, quest’ultimo potrà essere chiamato a rispondere dell’offesa insieme al trasgressore.
Prima di passare al caso concreto, analizzando le motivazioni adottate dalla Suprema Corte, ritengo opportuno indicare quali sono stati, nel tempo, gli orientamenti giurisprudenziali sulla questione.
Gli orientamenti giurisprudenziali
Un primo orientamento ha cercato di equiparare il responsabile del sito web al direttore (o vice) di giornale, che, in base all’articolo 57 del codice penale (“Salva la responsabilità dell’autore della pubblicazione e fuori dei casi di concorso, il direttore o il vice-direttore responsabile, il quale omette di esercitare sul contenuto del periodico da lui diretto il controllo necessario ad impedire che col mezzo della pubblicazione siano commessi reati, è punito, a titolo di colpa, se un reato è commesso, con la pena stabilita per tale reato, diminuita in misura non eccedente un terzo”), è considerato responsabile quando non impedisce la commissione di reati tramite la pubblicazione di un articolo.
Tuttavia, data la definizione letterale che viene data dalla legge sulla stampa (legge 47/1948) al termine “stampa” (art. 1: “Sono considerate stampe o stampati, ai fini di questa legge, tutte le riproduzioni tipografiche o comunque ottenute con mezzi meccanici o fisico-chimici, in qualsiasi modo destinate alla pubblicazione”), saranno rari i casi in cui un sito web potrà essere equiparato ad un giornale e, dunque, nella maggior parte delle ipotesi, il gestore del sito non potrà essere assimilato al direttore di un giornale (altrimenti si violerebbe il divieto di analogia della norma penale incriminante).
Estrema risulta invece una recente sentenza del tribunale di Varese (n. 116/2013) che è arrivato a considerare in capo ad un blogger una responsabilità diretta, e non mediata come quella appena analizzata, per le frasi pubblicate dagli utenti sul proprio blog.
Tale decisione, tuttavia, è stata aspramente criticata dalla dottrina in quanto, oltre ad essere alquanto scarne le motivazioni alla base, nella legislazione vigente non vi è alcun obbligo giuridico per il blogger di impedire l’evento dannoso causato da un proprio utente. Un simile obbligo si verifica esclusivamente quando il blog risulta limitato da alcuni filtri: soltanto in questo caso il blogger sarà obbligato a controllare ed approvare i commenti prima della loro pubblicazione.
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E’ da sottolineare come una responsabilità del provider in tal senso potrebbe verificarsi in uno specifico caso, ovvero quando quest’ultimo consenta l’accesso al sito agli utenti senza obbligarne l’identificazione: in tal caso i commenti anonimi saranno riferiti direttamente al gestore che copre l’identità dei trasgressori.
Ulteriori ipotesi di responsabilità del gestore del sito potranno, infine, sicuramente verificarsi quando sia lo stesso ad attivarsi volontariamente affinché un utente pubblichi delle frasi diffamatorie: in quest’ipotesi potranno verificarsi gli estremi del concorso di reato ai sensi dell’articolo 110 c.p. (“Quando più persone concorrono nel medesimo reato, ciascuna di esse soggiace alla pena per questo stabilita, salve le disposizioni degli articoli seguenti”) o di istigazione a delinquere ex 414 c.p (“1. Chiunque pubblicamente istiga a commettere uno o più reati è punito, per il solo fatto dell’istigazione: con la reclusione da uno a cinque anni, se trattasi di istigazione a commettere delitti; con la reclusione fino a un anno, ovvero con la multa fino a duecentosei euro, se trattasi di istigazione a commettere contravvenzioni. 2. Se si tratta di istigazione a commettere uno o più delitti e una o più contravvenzioni, si applica la pena stabilita nel numero 1. 3. Alla pena stabilita nel numero 1 soggiace anche chi pubblicamente fa l’apologia di uno o più delitti. La pena prevista dal presente comma nonché dal primo e dal secondo comma è aumentata se il fatto è commesso attraverso strumenti informatici o telematici. Fuori dei casi di cui all’articolo 302, se l’istigazione o l’apologia di cui ai commi precedenti riguarda delitti di terrorismo o crimini contro l’umanità la pena è aumentata della metà . La pena è aumentata fino a due terzi se il fatto è commesso attraverso strumenti informatici o telematici”)
La recente sentenza
Passiamo ora all’analisi della discussa sentenza della Corte di Cassazione.
Il caso riguarda un gestore di un sito web condannato per una frase diffamatoria postata da un utente sullo stesso sito.
In primo grado, il Tribunale aveva optato per l’assoluzione, tuttavia la sentenza è stata capovolta in Appello e così confermata dai Giudici di Legittimità.
La pronuncia ha destato parecchio scalpore essendo stata letta da molti come una sorta di attentato alla libertà in rete. Tuttavia, analizzando il caso concreto e le motivazioni fornite della Suprema Corte, tale decisione può apparire condivisibile.
Il motivo per cui la Cassazione ha confermato la condanna del provider consiste nel fatto che costui era consapevole della presenza della frase diffamatoria sul sito (prima del sequestro preventivo dello stesso) e non ha fatto nulla per eliminarla.
Secondo le ricostruzioni, infatti, tre giorni dopo la pubblicazione del post, è stato lo stesso utente ad inviare un’e-mail al gestore del sito, contenente un documento allegato allo stesso commento diffamatorio. L’unico motivo per cui il provider è stato condannato assieme al trasgressore è da rinvenire proprio in questa comunicazione diretta.
La sentenza, come si può notare, non stravolge in alcun modo quanto analizzato in precedenza: non vi è infatti nessuna condanna ai sensi dell’articolo 57 c.p. o per responsabilità diretta dello stesso gestore, ma una mera condanna per concorso di reato ex art. 110 c.p. a causa di una condotta omissiva del gestore del sito.
Da tale sentenza si potrebbe quindi semplicemente affermare che è ipotizzabile un concorso di reato qualora un provider mantenga consapevolmente un commento diffamatorio sul sito senza far nulla per eliminarlo (tuttavia bisognerà comunque analizzare concretamente i vari casi e le loro peculiarità).
Conclusioni
Chi ha visto in questa sentenza un pericolo per la libertà sul web può dunque comprendere come il quadro giurisprudenziale in realtà non sia in alcun modo stato modificato.
Tuttavia, data l’attualità della questione e la presenza di sentenze di merito alquanto contraddittorie, sarebbe auspicabile un esplicito intervento del legislatore che disciplini in modo chiaro la materia per porre fine ad ogni dubbio e discussione.
Dott. Luigi Dinella